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Colossesi 1:9-10

 

La chiesa è una comunità di fratelli e sorelle che ha la sua sorgente nella grazia di Dio

“Perciò noi non cessiamo di pregare per voi e di domandare che siate ricolmi della profonda conoscenza della volontà di Dio con ogni sapienza e intelligenza spirituale, perché camminiate in modo degno del Signore per piacergli in ogni cosa, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio”.

Colossesi 1:9-10

Tempo di persecuzione e di morte, di indifferenza e ipocrisia. Coloro che sfuggono alla persecuzione per ragioni religiose o etniche in Siria e in Egitto rischiano di trovare la morte nel Mediterraneo, a causa dell’incapacità europea di schierarsi a favore dei più deboli. È un storia vecchia e antica. Sempre facciamo i contri con il nostro sguardo corto, con i nostri pregiudizi, con il desiderio di compromesso. E il compromesso passa sopra la vita delle persone. Persino il grande teologo K. Barth, autore delle tesi di Barmen, ammette di aver a suo tempo sottovalutato la questione ebraica. Così scrive, ormai nel 1967:

“Nuovo era per me il dato che Bonhoeffer nel 1933 e anni seguenti fu il primo e quasi l’unico a prestare attenzione e prendere posizione sulla questione ebraica, in modo così centrale ed energico. Da molto tempo sento come una colpa da parte mia di non averla allo stesso modo fatta valere come decisiva, in ogni caso di non averlo fatto pubblicamente, p.es. nelle due dichiarazioni di Barmen da me redatte nel 1934. Certo, un testo in cui avessi fatto questo nel 1934, data la mentalità di allora, anche fra i “confessanti”, non sarebbe diventato accettabile, né nel sinodo riformato, né nel sinodo generale. Ma questo non scusa il fatto che io a quel tempo non mi sia almeno battuto in tutti i modi possibili per questa causa”.

La chiesa non è stata capace di opporsi apertamente, a partire dalla propria fede, alla discriminazione razzista contro gli Ebrei, al famigerato “paragrafo ariano”. Lo dico ben sapendo le radici profonde della lotta al razzismo e all’antisemitismo che sono state una luce in questa chiesa valdese di Firenze, che in quegli anni ’30 divenne un luogo di rifugio per molti. Ma in generale a quel tempo la chiesa si costruì una sorta di separazione dal “mondo del peccato” – come dice la stessa Dichiarazione di Barmen -, dandosi l’immagine di un luogo separato e non contaminato dal peccato. E questa tentazione di separarsi continua fino a oggi. Tuttavia per essere luogo separato che vive della grazia di Dio la chiesa dovrebbe essere un luogo di perfetta comunione, già rinnovato dalla grazia, un luogo in cui non vi siano esclusione o pregiudizio.

L’essere della chiesa dipende dall’azione di Gesù Cristo ma non si identifica con Gesù stesso. La chiesa è una comunità di fratelli e sorelle che ha la sua sorgente nella grazia di Dio, in una salvezza operata per noi, che ci raggiunge e ci chiama. La chiesa non è perfetta, e guai a lei quando credesse di esserlo, chè si riempirebbe di falso orgoglio dimenticando che la sua ragion d’essere e la sua giustificazione sono nell’opera di liberazione del Dio dell’esodo, del Dio degli schiavi, del Dio di un maestro crocifisso tra i rifiuti della storia. Ma proprio per questo la chiesa è anche necessariamente tesa a vivere quella liberazione, ad agire in favore della giustizia, a rischiare la vita contro le leggi ingiuste. Tutti e tutte coloro che qui a Firenze rischiarono la vita per salvare un Ebreo o un prigioniero inglese – tutte quelle famiglie e persone coinvolte con i pastori nella rete di solidarietà che si rafforzava a ogni salvataggio – hanno visto il senso della comune umanità al di là degli steccati che dividevano e discriminavano. Quella radice di pensiero libero e critico e di capacità di agire la liberazione, dopo 70 anni, è per noi tanto simile alla confessione di fede più antica del popolo ebraico:

Deut 26:5-9 «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come straniero con poca gente e vi diventò una nazione grande, potente e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore udì la nostra voce, vide la nostra oppressione, il nostro travaglio e la nostra afflizione, e il Signore ci fece uscire dall'Egitto con potente mano e con braccio steso, con grandi e tremendi miracoli e prodigi, ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorrono il latte e il miele”.

Tutto sta a vedere come userai della libertà che hai ricevuto, se ti ricorderai dell’amarezza della schiavitù passata, e se saprai vedere che questo dono grande di Dio è per tutta l’umanità e non per te soltanto. K. Barth, dopo aver riconosciuto la sua mancanza di analisi e di coraggio nel proporre una condanna esplicita del razzismo del suo tempo, riconosce anche che l’evangelo non è per la chiesa soltanto ma per tutto il mondo.

Non c’è da una parte la chiesa perfetta, dall’altra il mondo peccatore. Invece esiste una solidarietà tra chiesa e mondo rispetto al peccato come anche rispetto alla grazia. Per dirla con le sue parole: “anche là vi è una sensibilità per il diritto e una via che conduce effettivamente dal peggiore al migliore”. Anzi, a volte è proprio la società che ci insegna, che ci è maestra: “Potrebbe darsi che nei suoi incontri con il mondo, la chiesa si accorga talvolta che i figli di questo secolo si rivelino più avveduti dei figli della luce, e che essa sia di fatto condotta, nella ricerca del proprio diritto, a mettersi alla scuola del mondo per lasciarsi attestare da quelli di fuori ciò che essa dovrebbe attestare loro!”.

Ora, noi siamo radicati in questa storia di liberazione – la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, la liberazione della croce e resurrezione, e non ultima la liberazione che 70 anni fa ha voluto dar forma a una società più libera, democratica e aperta. E noi, con tali radici, come rispondiamo alle tragedie che percorrono il nostro tempo, senza nasconderci a chi ha bisogno di noi e ci si presenta con la nuda e vulnerabile comune umanità? Parlo delle migliaia di migranti e profughi che passano il canale di Sicilia e tanti altri muri, fossati, reti e frontiere fortificate in Europa e altrove. Essi passano questi confini con coraggio e ferma speranza, stringendo i bambini e la Bibbia o il Corano, aggrappandosi a una idea di solidarietà umana che li spinge a sperare nell’incontro con la parte migliore di chi li soccorrerà. Ma parlo anche dei milioni di persone che non partono, che cercano una vita migliore là dove sono, che piangono, soffrono e sperano, e resistono nel bene. Sono anch’essi espressione di questa umanità che anela a una liberazione completa.

Noi, come rispondiamo, come agiamo? Siamo una chiesa profetica, inclusiva, capace di amore? L’amore vince il mondo, afferma l’apostolo Giovanni. Vince le sue logiche di esclusione e di odio. E ci ispira coraggio per ridare spessore alla nostra umanità e rispondere così alla vocazione che ci è rivolta là dove siamo.

Pastora Letizia Tomassone, Domenica 26 Aprile 2015 Chiesa Evangelica Valdese di Firenze

 

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Ultimo aggiornamento: 2 Maggio 2015
 ©Chiesa Evangelica Valdese di Firenze